Processo Vannini: la Cassazione è stata influenzata dalla “Super-Procura” mediatica?
La Corte di Cassazione, con la sentenza 9049/2020, rimette in discussione la tormentata (e tragica) vicenda della morte di Marco Vannini. Come è noto, l’opinione pubblica, nella stragrande maggioranza, faceva il tifo per questo esito, il quale pone una seria ipoteca sulla possibilità che il giudizio di rinvio arrivi nuovamente ad escludere l’omicidio doloso.
Potrebbe sembrare atipico che un commento strettamente giuridico, seppure di taglio divulgativo, prenda le mosse dalla considerazione del “tifo dell’opinione pubblica”.
Eppure la consapevolezza del rilievo negativo del cosiddetto processo mediatico è ormai largamente diffusa, soprattutto fra gli addetti ai lavori.
La sentenza in questione ha accolto il motivo principale dei ricorsi della Procura e delle Parti civili, che si dolevano di un’errata configurazione dell’elemento soggettivo in termini di colpa anziché in termini di dolo. La sua motivazione si presta ad alcune considerazioni, la prima delle quali riguarda il metro di giudizio adottato della Corte.
La sentenza impugnata è stata annullata per vizio di motivazione
Dopo aver letto le motivazioni, qualcuno potrebbe essere indotto a ritenere che quando c’è la forte pressione di alcune trasmissioni televisive di grande seguito, i giudici, inconsciamente, si lascino condizionare dal cono di luce accecante dei riflettori, ed arrivino così a forzare consolidati orientamenti che, invece, valgono per gli “imputati comuni”, soprattutto quando sono questi a ricoprire il ruolo di ricorrenti.
La Cassazione ha accolto i ricorsi ritenendo sussistente il vizio di motivazione in punto di criterio di accertamento dell’elemento soggettivo. In sostanza, ha criticato la ricostruzione degli indizi attraverso la quale la Corte d’assise d’appello aveva ritenuto che non vi fosse intenzione di uccidere, neppure nella forma del dolo eventuale.
Come tutti sanno, nel processo, prima si raccolgono le prove dei fatti storici e poi si cerca di attribuire a tali fatti un significato univoco, in linea con le previsioni normative.
Anche (e soprattutto) quando si deve decidere quale fosse l’atteggiamento soggettivo dell’imputato (dolo, colpa, totale buona fede), si devono interpretare i fatti emersi dall’istruttoria, cercando di attribuirgli una valenza chiara e significante, come sintomi di una certa volontà.
Del resto, quella di interpretare la volontà attraverso i comportamenti è un’esigenza propria delle relazioni umane, prima ancora che giuridica.
La soluzione del problema diventa ancora più ardua quando si tratta di ricavare dai comportamenti la ragione della sottile differenza che intercorre fra il dolo eventuale e la colpa.
L’omicidio per colpa si caratterizza per un atteggiamento mentale di consapevole inosservanza di cautele e può rimanere tale, nei casi più gravi, anche in presenza di una previsione della morte, purché il soggetto agente sia convinto di poterla scongiurare.
Il dolo eventuale, da parte sua, risponde più ad un’esigenza normativa che ad una vera e propria osservazione naturalistica dei fenomeni psichici, la quale possa attestare che, ad un certo punto, si verifica nel cervello un salto qualitativo attraverso il quale si passa dalla negligenza all’intenzione omicidiaria.
Se vogliamo essere onesti dobbiamo anzi ammettere che, dal punto di vista della valutazione giudiziaria degli indizi, molto spesso, il passaggio dalla colpa al dolo eventuale è più un fatto quantitativo che un fatto qualitativo. E ciò nonostante (e con buona pace) dei secolari sforzi classificatori della dommatica giuridica.
La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, ha affermato che il significato attribuito dai giudici di appello agli indizi è stato il frutto di un’operazione logicamente errata.
Tali giudici avevano dato rilievo ad alcuni fra i fatti emersi dal dibattimento, piuttosto che ad altri, che la Corte suprema ha invece ritenuto più idonei all’inquadramento.
La domanda da porsi a questo punto è però di tipo strettamente procedurale: quali sono i limiti del ricorso per cassazione per vizio di motivazione e qual’è la costante giurisprudenza di legittimità sul punto?
L’articolo 606, comma primo lettera “e”, del codice di rito prevede che si possa annullare una sentenza per “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione …”.
L’applicazione di tale norma da parte della cassazione è sotto gli occhi di tutti gli addetti ai lavori e di tutti quegli imputati che provano ad utilizzarla: vengono dichiarati inammissibili la quasi totalità dei ricorsi grazie al richiamo di una massima che potremmo definire tralatizia, se non fosse che l’uso dei neologismi informatici ci suggerisce di meglio definirla con l’espressione “copia e incolla”.
Tale massima ci dice che la Cassazione, quale giudice di legittimità, può censurare unicamente quelle motivazioni totalmente incomprensibili secondo il comune senso logico e non può, invece, sostituire alla motivazione prescelta dai giudici di merito, una motivazione alternativa, seppure ritenuta logicamente preferibile perché più convincente della prima. Punto.
E allora, la ricostruzione della sentenza impugnata dalla Procura e dalle parti civili era totalmente illogica? Era priva di senso logico compiuto? Era incomprensibile applicando il ragionamento? Oppure la cassazione, travalicando lo steccato dei suoi poteri, ne ha preferita un’altra, logica come la prima e sorretta, come la prima, da una selezione opinabile degli elementi ritenuti significanti?
Limitandosi, per ragioni di sintesi, alla posizione del principale imputato, è da dire che la Corte d’appello aveva affermato che il Ciontoli, per quanto autore di una condotta gravemente imprudente prima e gravemente omissiva poi, non aveva mai accettato (nel senso previsto dalla figura del dolo eventuale) l’evento morte, poiché, anzi, egli sperava e fidava che ciò non accadesse.
Secondo tale ragionamento, Ciontoli non poteva certo volere la morte. Infatti, se il Vannini fosse morto, l’autopsia avrebbe svelato senza ombra di dubbio il colpo di pistola.
Richiamando quella che è conosciuta in dottrina come la formula di Frank, il giudice di appello aveva affermato che se l’imputato avesse avuto la certezza della morte si sarebbe senz’altro astenuto dal proseguire nella sua condotta omissiva, poiché la morte avrebbe comportato una totale e irreversibile negazione delle finalità del proprio comportamento.
Per contro, l’assoluta particolarità della ferita, la quale sembrava non aver attinto organi vitali, nella intuibile ponderazione del feritore lasciava presagire un esito fausto e, dunque, gli avrebbe lasciato il tempo di ricorrere a cure più discrete, nella speranza che lo stesso ferito, in nome dei rapporti esistenti, avrebbe condiviso l’opportunità di aiutare il futuro suocero e di non fargli perdere il lavoro.
Non è assolutamente sconosciuta in astratto l’evenienza di chi, pur ferito da un’arma da fuoco ma non attinto in organi vitali, sopravvive grazie a cure mediche successive.
Non chiamare tempestivamente i soccorsi, pur se per motivi altamente egoistici, non colora in modo determinante la natura dell’elemento soggettivo, la quale resta ancorata all’atteggiamento mentale nei confronti della possibilità o meno che ne consegua la morte.
In particolare, la colpa sta nell’accettazione del rischio, mentre il dolo eventuale si radica nell’accettazione dell’evento.
A fronte di un simile ragionamento, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la sentenza impugnata abbia applicato male i principi dettati dalle Sezioni Unite con la pronuncia 38343/2014, ricordando che tale arresto nomofilattico aveva evidenziato una serie di indici da cui desumere il dolo eventuale – fra cui quello, non esclusivo, applicato in appello – e aveva demandato ai giudici di merito di verificare quali di essi, nel singolo caso concreto, potessero fare da selettore.
A ben vedere, però, questa citazione costituisce proprio una conferma del travalicamento operato dalla Cassazione, cui prima si faceva cenno.
Non si comprende, invero, come i giudici di legittimità, dopo aver ricordato come sia compito del giudice di merito applicare il selettore ritenuto più idoneo, passino essi stessi ad indicare quale sia il selettore giusto, proponendo una lettura alternativa a quella, lo si ripete, opinabile ma non illogica nel senso dell’articolo 606 cpp., adottata in appello.
Tale lettura alternativa, nel concreto, si spinge a sostenere che fra i principali elementi che dovevano fungere da selettore vi era il fatto che se Vannini fosse sopravvissuto avrebbe potuto raccontare la verità. Dunque la morte non come fatto assolutamente non voluto da Ciontoli ma come evento quasi auspicato.
Come già sopra evidenziato, la Cassazione non aveva certo il compito di validare una lettura meramente alternativa delle risultanze. In ogni caso, appare evidente come una simile lettura dell’evento morte sia altrettanto – se non più – opinabile della prima. Vi si può infatti ribattere, con i giudici dell’appello, che la sopravvivenza avrebbe probabilmente evitato allo sparatore di perdere il lavoro e, comunque, gli avrebbe evitato l’imputazione di omicidio. Al contrario, la morte, avrebbe fatto emergere lo sparo senza ombra di dubbio e, con esso, l’imputazione di omicidio, come poi è stato.
Perché è indispensabile l’attuale regime delle impugnazioni
Dalla vicenda in esame si trae un ulteriore importante insegnamento: Ancora una volta – e non è certo la prima, né sarà l’ultima – è andato in scena un radicale conflitto di vedute fra diversi giudici e diversi gradi di giurisdizione.
Con buona pace dei portabandiera di quegli epigoni delle vedute illuministiche, oggi giustizialiste, che mostrano di fidare ancora nell’esistenza di un giudice “bouche de la loi” – mito rinverdito dalla nuova fede nelle capacità predittive in campo giudiziario dell’intelligenza artificiale – occorre prendere atto dell’ontologica imperfezione della pronuncia giurisdizionale.
Non perfetta ma perfettibile, grazie all’uso pieno e coscienzioso del contraddittorio processuale. Ciò, ove possibile, è ancor più vero quando si tratti di accertare elementi incerti, quasi ineffabili, come il dolo eventuale.
Non si può non sottolineare ancora una volta come nel caso che ci occupa, molto probabilmente, si sia arrivati all’annullamento e al nuovo giudizio di appello quale portato della grandissima attenzione mediatica.
Non si può fare a meno di domandarsi cosa sarebbe accaduto al processo Vannini (e cosa accadrebbe ai tantissimi processi meno noti) se non ci fosse l’appello o se la Cassazione non potesse più sindacare il vizio di motivazione.
Avv. Enrico Leo – Avvocato di Roma
Titolare dello Studio Legale Leo da circa trent’anni. Si occupa prevalentemente di processi penali per reati fallimentari, tributari e dell’economia.