libro Le parole di mia madre

Le parole di mia madre

Stampato poco prima del Lockdown il libro del Prof. Pietro Alimonti, ex primario di pneumologia dell’ospedale S. Camillo di Roma, si rivela un utile “genere di conforto” alla quarantena a cui siamo costretti, perchè contiene un’antologia di storie esilaranti e teneri ricordi, di quella Roma anni 50, negli anni della ricostruzione, dopo la guerra. Dove la gente pur non avendo niente, si risollevava grazie alla voglia di fare e all’amore della famiglia. Il libro, con quella tipica saggezza popolare romanesca, ci da dalle risposte alla domanda che oggi più ci assilla: come sarà il nostro futuro, ora che credevamo di avere tutto e invece non avevamo niente? Ve ne proponiamo un assaggio.

IL RICICLO

Quante volte mi sono sentito dire: “Non si getta via il pane, perché fai piangere Gesù e quando morirai andrai all’inferno!” Per non far piangere Gesu Bambino eravamo attenti a non sprecare nulla. La sacralità del cibo costituiva un dato colturale, uno stile di vita che si era consolidato nel corso di una lunga storia legata a necessità e mancanza di cibo. Il pane avanzato (ormai secco) era lavorato con una grossa grattugia, sino a diventare una soffice nuvola di pangrattato.
Quante fettine panate, quanti polpettoni, quante alici e pomodori gratinati in quegli anni! Il menù giornaliero era in funzione degli avanzi del giorno prima: con il riso erano confezionati croccanti supplì, gli avanzi di carne e di pesce ben sminuzzati diventavano polpettine da cuocere in padella, con le verdure avanzate si facevano miracoli, con il
latte andato a male si puliva l’argento o si smacchiavano indumenti macchiati dall’inchiostro. Tutto veniva riutilizzato, riproposto, reinventato. Meglio aggiustare e trasformare piuttosto che comprare nuovamente. Alcune pietanze riscaldate risultavano più buone, pensate alla polenta al sugo ripassata in padella, una vera delizia! O alle verdure
lesse trattate in padella con olio, aglio e peperoncino.
Trovare del vino vecchio in un fiasco era un tesoro: subito era mescolato nel grosso recipiente dell’aceto che conteneva la matrice originale di nonna Filomena. L’olio di frittura, se non troppo sfruttato, era messo da parte per essere riutilizzato. I picciuoli delle ciliegie essiccati e conservati in caso di otite venivano bolliti e l’orecchio del malcapitato
esposto ai vapori. I fiori di camomilla e le foglie di malva usati come impacchi, servivano a maturare gli orzaioli.

Il cassetto della credenza in camera da pranzo conteneva un vero e proprio bazar; tappi di sughero, bottoni, aghi e fili di vari colori per cucire, piccoli pezzi di stoffa, chiodi e viti usate, avanzi di cavi elettrici, prese di corrente degli anni venti, vecchie chiavi e serrature ormai inservibili, strani oggetti di metallo di cui non si conosceva la provenienza, ma che un giorno si diceva sarebbero potuti tornare utili. Tutto ciò che non si poteva rammendare si trasformava in stracci
per la polvere. Nel ripostiglio sotto il lavello sistemati in bello ordine c’era sempre una pila di questi preziosi, protagonisti della cura dell’igiene.
Ai vicini mancava sempre qualcosa per preparare la cena, o per le piccole riparazioni, bussavano alla porta che aveva sempre le chiavi nella toppa, oppure entravano direttamente, chiamando mia madre per nome. Ricevevano tutto quello che chiedevano, con la consapevolezza che quello che era stato dato non sarebbe mai stati restituito, ma con la certezza di un loro aiuto in caso di necessità.
Sebbene la carta igienica sia stata inventata dall’americano Joseph Coyatty nel 1857, perché spendere i soldi? Si usavano piccoli ritagli di carta che venivano confezzionati da noi ragazzi, riciclando gli involucri in cui erano avvolti gli alimenti deperibili. Nei locali pubblici invece, in quelli di livello medio, imperversava il quotidiano appeso ad un chiodo,
diviso in quadrati perfetti prima sgualciti e poi ristirati.
Quale miglior modo per combattere la piaga dell’analfabetismo!
La maggior parte dell’attività di riciclaggio alimentare ferveva soprattutto d’estate perché non c’era il frigorifero e si utilizzava una ghiacciaia inglese di legno foderata di zinco.
Ricordo che andavo in bicicletta a piazza della Stazione Nuova a comprare mezza colonna di ghiaccio per cinquanta lire, una lunga fila di ragazzi sostava davanti alla rivendita.
Il negoziante assestava con una grossa accetta un colpo violento sul pezzo, schegge impazzite di ghiaccio rimbalzavano dovunque e gli astanti per nulla intimoriti dalla presenza di quei pericolosi fendenti si lanciavano a raccoglierli; più il frammento era grande, più la preda era ambita, più quel primordiale ghiacciolo era gradito. Avvolto in un canovaccio da cucina, quel pilastro gelido lo fisso sulla canna della
mia bici rossa e con quello ingegnoso impianto di raffreddamento
mi lancio a folle velocità per le strade che mi riportano a casa.
Appena arrivato passo alla seconda fase del trattamento: ne distacco un pezzo che avvolgo in un vecchio strofinaccio, battendo con il martello lo frantumo in piccole parti, preparo una grattachecca alla menta e orzata della Pallini. Una volta depositato il ghiaccio nel fondo della ghiacciaia, vi
adagio sopra le bottiglie di gassosa Neri (se bevi Neri ne ribevi) quelle con la pallina che spinti dalla pressione interna chiude il collo della bottiglia, un sistema ingegnoso prima dell’uso dei tappi a corona. A Roma per indicare le donne ipertiroidee, quelle che hanno gli occhi di fuori, è
stato coniato il detto “avere gli occhi a palla di gassosa.”
Non manca mai la bottiglia con il tappo a tenuta che serve a preparare l’acqua con l’Idrolitina di Gazzoni; dopo averla agitata, mi fermo ad osservare le bollicine che salgono dal fondo, facendo ribollire l’acqua; con il primo sorso sento friggere l’acqua nella bocca, poi giù sino allo stomaco dove finalmente cessa di bollire.
“Nulla si butta, tutto si conserva” era l’imperativo di mia madre, negli anni a venire sarebbe stata sconfessata.

Pietro Alimonti

    
       

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